venerdì 27 marzo 2009

Paolo Puppa presenta: Lettere Impossibili


La finzione spesso è più vera della realtà. E il monologo forse, oggi, è la forma più socievole del dialogo. Sono, simili assunti, le giuste premesse per il carattere ilaro-tragico del volume. Ebbene, queste Lettere impossibili costituiscono una serie di invenzioni verosimili. Innanzitutto, il loro scopo è quello d i mostrare la non reciprocità dell'investimento amoroso o dell'interesse portato dall'Io all'altro, quasi la spietata negazione del verso dantesco "Amor che a nullo amato amar perdona". La passione, e le sue varianti dall'affetto parentale alla devozione-amicizia, qui risultano per lo più un gioco solitario, cieco e mai caratterizzato dalla corrispondenza interpersonale. Scritte da personaggi celebri ad altri, più o meno della medesima rinomanza, le epistole vengono siglate da raggelanti risposte, sempre sfasate in quanto indirizzate a terzi, confermando la solitudine del Soggetto nel reale. Lettere da me inventate, e nondimeno tutte costruite su basi rigorosamente filologiche (là dove possibile anche mimando le tecniche espressive delle personalità ospitate) e su materiali biografici rispettosi della carriera dei protagonisti. In scena, agiscono in effetti colossi della letteratura e della ribalta tardo ottocentesca e novecentesca. Sfilano cosi Ibsen e Strindberg collegati tra loro dalla pianista Hildur Andersen, Cesare Lombroso e il nipote Leo Ferrero mediati da Aldo Garosci, Corrado Govoni e Eleonora Duse col risvolto di Silvio D'Amico, Italo Svevo e Luigi Pirandello col commiato tra i due ad opera dell'attore Camillo Pilotto, Dino Campana e Sibilla Alerano con Ardengo Sofficici a fungere da sfogo per la seconda, Carlo Emilio Gadda e Ugo Betti con la signora Andreina Betti a garantire appoggi al marito, Anna Lucia Joyce e Beckett con James Joyce, unico destinatario di Samuel, D'Annunzio e le sue badesse-badanti al Vittoriale (Luisa Baccara e Emilie Mazoyer), Pier Paolo Pasolini e Don Milani già defunto. Tutti costoro rappresentano idoli nella mia biblioteca di studioso e di lettore, tanto che ho sentito l'impulso a farne riemergere episodi a volte oscuri della loro storia umana e culturale, osando riscriverli, completarli, a mo' di risarcimento o di svelamento. Spesso e la casa di cura il contesto da cui si sprigiona il messaggio febbrile, I'attesa smaniosa e impotente di un segnale dell'altro che non può o non vuole arrivare, oppure una stanza vuota, uno spazio notturno da cui fuoriesce la mancanza, I'assenza dell'oggetto bramato e lontano, divenuto ormai una sorta di Dio crudele e spietato.
Portati in palcoscenico dallo stesso autore, in letture-performances coinvolgendo ogni tanto celebri interpreti, questi monologhi esprimono di fatto il disagio di esistere, I'incapacità a relazionarsi col mondo da parte dell'io, specie se invaso dall'ingorgo di immaginazione creativa tipico dell'artista. E nondimeno nella risposta tanto poco sintonizzata del destinatario emerge una lezione di vita, di accettazione umile dell'oggettività. Perché nessuno è figlio unico, dal momento che, purtroppo e per fortuna, esistono gli altri.
Grazie a queste Lettere impossibili, e all'eccentricità del genere adottato, ho cercato di riunire le due facce del mio lavoro, quello storico-scientifico del professore universitario specialista di teatro, e quello inventivo del drammaturgo-performer. Ho provato cioè ad armonizzare tale compresenza, a ricomporre una dissociazione nel mio paese spesso fonte di perplessità nello sguardo degli operatori entro i due diversi settori, entrambi sospettosi verso chi si azzarda a fare il pendolare tra i due territori. In più, l'assicurazione che non si tratta qui di pastiches borgesiani. Anche perché più che mai dietro il gioco di specchi si rifrange qualcosa di me, di modo che in fondo posso dire agevolmente: "de me fabula narratur".
 
Paolo Puppa
 

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